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La progettazione invisibile: essere UX/UI designer in un’agenzia di comunicazione

Scritto da Lucrezia Ghinassi | 22-lug-2025 13.06.44

Abbiamo intervistato Lucrezia Ghinassi UX-UI di Integra Solutions per scoprire ed entrare ancora più nel profondo del suo ruolo e soprattutto partire dalla domanda: "Cosa significa progettare esperienze digitali?"

1. “Quando dici che fai la UX/UI designer… cosa intendi davvero?”

LG:  Come UX/UI designer mi occupo di progettare come le persone vivono e interagiscono con prodotti o servizi, progettando l’esperienza complessiva (User Experience) e l’interfaccia grafica con cui entrano in contatto (User Interface).

Progettare esperienze significa considerare tutto il “viaggio” dell’utente verso il raggiungimento di un obiettivo, che si tratti di un sito web, di un’app o di uno spazio reale. Per esempio, in un museo la segnaletica, il percorso tra le sale, la disposizione degli oggetti sono tutte scelte di UX che aiutano la fruizione, migliorano la comprensione e coinvolgono il visitatore. Allo stesso modo, anche l’uso di una macchina per il pagamento automatico, con indicazioni semplici e chiare, rientrano nella progettazione dell’esperienza utente.

Progettare la UserExperience significa quindi progettare per le persone, aiutandole a raggiungere i loro obiettivi con meno frizioni possibili.

 

2. “Come costruisci ponti tra visioni diverse?”

LG: In agenzia, ogni progetto è un mondo a sé. E in ogni mondo servono interpreti. Come designer UX/UI non mi limito a “decorare” interfacce: creo percorsi e significati condivisi. Traduco idee e visioni creative in logiche navigabili. Traduco limiti tecnici in soluzioni pratiche. Traduco: una parola chiave nel mio quotidiano.

Essere ponte non significa solo “mediare”: significa facilitare l’incontro tra persone, esigenze e linguaggi. Significa garantire coerenza tra l’identità visiva pensata da un art director e i pattern di interazione pensati per l’utente finale. Significa spesso saper rallentare, ascoltare, disfare e ricomporre.

 

3. “Ma se il design è invisibile… come si misura il tuo impatto?”

LG: In molti casi, il valore di ciò che faccio non si vede. Non è un bottone rosso al centro di una homepage: è il fatto che quell’utente sia arrivato a quel bottone senza difficoltà, senza confusione. È l’etichetta giusta in un form, la gerarchia visiva che guida senza gridare, il micro-testo che calma un’ansia in fase di pagamento. È l’indicazione chiara sulla parete che accompagna il paziente all’ambulatorio giusto, senza perdersi.

Tutto questo è design invisibile: una progettazione che lavora in sottrazione, che non chiede attenzione ma la guida. Eppure, questo invisibile va costruito con metodo: ogni elemento nasce da scelte ponderate, compromessi tra desideri e realtà, prove ed errori.

4. “Lavorare in agenzia è spesso caotico. Come riesci a mantenere metodo e cura?”

LG: In un’agenzia i tempi sono spesso stretti, i progetti variegati, i team fluidi. Ma questo non toglie valore al metodo: insegna a progettare anche nel disordine, a trovare una bussola dentro le urgenze.

Per me, il design inizia sempre da ascolto e comprensione: del brief, del brand, delle persone che useranno il prodotto. Poi arriva l’organizzazione delle informazioni, la definizione dei flussi, l’architettura del progetto. Solo dopo prende forma la parte visiva. Ogni passaggio è fatto di cura.

 

5. “E questa cura, la condividi anche con gli altri?”

LG: Assolutamente sì. Cerco di trasmetterla nei workshop con i clienti, nell’ideazione della veste grafica, ma anche nei momenti di co-progettazione con i vari team di lavoro, un approccio fondamentale in un ecosistema agenziale. Dal mio punto di vista anche la cura è una forma di progettazione silenziosa, che spesso si rivela nei piccoli dettagli.

 

6. “Quanto conta il lato relazionale nel tuo lavoro?”

LG: Essere UX-UI designer richiede una certa dose di empatia: infatti uno degli aspetti che più amo del mio ruolo è proprio il suo lato relazionale. Spesso mi trovo a facilitare la comunicazione tra reparti con approcci molto diversi: il team creativo, orientato alla visione e al messaggio; il team digitale, focalizzato sulla funzionalità e l’implementazione.

Il mio compito è trovare un linguaggio comune. Aiutare a convergere. Creare un terreno dove ogni parte si senta ascoltata e possa contribuire. In questo senso, il mio lavoro non è solo progettare interfacce, ma costruire fiducia tra persone e processi: un lavoro di ascolto, traduzione e sintesi.

 

7. “Se dovessi descrivere in poche parole cosa significa essere UX/UI designer oggi, cosa diresti?”

LG: Essere UX/UI designer in agenzia, per me, significa prendersi cura delle relazioni, dei dettagli invisibili, delle esperienze altrui. Significa sapere che ogni click è una piccola decisione, ogni interfaccia una possibilità di incontro. Ogni elemento progettato con attenzione, è un aiuto concreto nei percorsi quotidiani che le persone compiono, spesso senza nemmeno accorgersene.

In un contesto dove si parla spesso di performance, trend e tecnologie, io voglio continuare a portare attenzione. Alle persone, prima di tutto. Ai processi che le uniscono. Alle sfumature che rendono il digitale davvero umano. E se a volte tutto questo non si vede, va bene così. Il miglior design, dopotutto, è quello che funziona senza chiedere permesso.